I CENT’ANNI DI ROCCO SCOTELLARO

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di Antonio Grasso

Cent’anni oggi. Li avrebbe festeggiati sicuramente fra i “suoi” contadini, Rocco Scotellaro. Bevendo “insieme una tazza colma di vino / che all’ilare tempo della sera / s’acquieti il nostro vento disperato”. Cantore adamantino di quella “civiltà rurale” che l’antropologo Ernesto De Martino mise a fuoco nelle sue indagini etnografiche sul campo degli Anni ’50 del “secolo breve”. Un “mondo contadino” rude ma, al tempo stesso, espressione vogliosa di rispetto e tenerezza. E se da poeta ne raccontò in versi come pochi altri, da uomo politico – Scotellaro – riuscì a far convogliare nelle Istituzioni le istanze. Lo fece sotto le storiche insegne del Partito Socialista. Da convinto meridionalista qual era. Uomo del Sud e per il Sud (con la maiuscola, come l’avrebbe scritto lui). Nato il 19 aprile del 1923, all’età di soli 12 anni si trasferisce, con la propria famiglia a Sicignano degli Alburni. Nemmeno il tempo di iscriversi al collegio che è costretto a cambiare destinazione. Si sposta così a Cava dei Tirreni. Poi a Matera, Roma, Potenza, Trento e Tivoli, dove riesce a portare a compimento il percorso di studi classici. Nel 1942 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma. Per Scotellaro sono anni intensi. “Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia Patria è dove l’erba trema”. Ritornato nella sua Tricarico partecipa attivamente alla vita politica. Sorretto da una buona dose di passione e coraggio. “La terra mi tiene / e la tempesta se viene / mi trova pronto”. All’età di soli 23 anni si candida e viene eletto sindaco. È il primo sindaco della Tricarico dell’Italia repubblicana. Interpreta sin da subito il suo mandato politico-amministrativo chiamando alla partecipazione attiva dei cittadini, coinvolgendoli nella trattazione e nella risoluzione dei problemi, come testimonia – peraltro – la vicenda della fondazione dell’ospedale civile di Tricarico. Sempre e comunque in prima linea. Soprattutto nell’occupazione delle terre, per rivendicare i diritti dei contadini contro lo sfruttamento dei latifondisti. Non a caso è fra i principali promotori della Riforma Agraria. “Datemi pure a mangiare il pane della questua nero indurito, ho tanta voglia di lavorare” scriverà nella lirica “La città mi uccide”. Accusato di concussione, truffa e associazione a delinquere dai suoi avversari politici, nel 1950 finisce in carcere. È costretto a trascorrere 45 giorni dietro le sbarre. Ma caduta l’accusa e smascherata la cospirazione politica nei suoi confronti, Scotellaro verrà assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. La vicenda, però, lo segna profondamente. E, unita alla delusione per la mancata elezione a livello provinciale, lo porta ad una decisione sofferta ma inevitabile: abbandonare l’attività politica per dedicarsi maggiormente a quella letteraria. Lo fa trasferendosi a Portici, dove compie – presso l’Osservatorio di Economia Agraria – ricerche e studi sociologici (oltre ad un’inchiesta sulla cultura e sulle condizioni di vita delle popolazioni del Mezzogiorno) per conto della prestigiosa casa editrice Einaudi. Collabora con Manlio Rossi-Doria che aveva conosciuto, da sindaco di Tricarico, alcuni anni prima insieme ad un altro suo grande amico: Carlo Levi. Riesce ad abbinare poesia e prosa. Anche se in versi darà il meglio di se in Tutte le poesie” (1940-1953), con “È fatto giorno che gli valse il Premio Viareggio. Una poesia che è tutto un programma: “È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / Con i panni e le scarpe e le facce che avevamo. / Le lepri si sono ritirate e i galli cantano, / ritorna la faccia di mia madre al focolare”. Quella madre, Francesca Armento, cui dedicherà anche l’ultimo componimento (dal titolo “Tu sola sei vera”) scritto poco prima di morire il 15 dicembre del 1953, all’età di soli 30 anni. Per un infarto. Un “fiore” reciso troppo presto alle soglie dell’inverno.

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