Sanità, non è più tempo di “navigazioni a vista”

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Antonio Flovilla, vice presidente nazionale FederANISAP

Mentre la Giunta Regionale della Basilicata tra confronto tutto teorico sul Piano della Salute e “politica del gambero” sul presente e futuro dell’unica casa di cura privata di Potenza continua a “navigare a vista” parlano chiaro i dati raccolti dall’Osservatorio Gimbe sulla sostenibilità del Ssn. A dicembre 2016 la legge di Bilancio 2017 definisce il finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard: 113 miliardi per il 2017, 114 per il 2018 e 115 per il 2019. Ad aprile 2017: il Documento di economica e finanza (Def) 2017 prevede che il rapporto tra spesa sanitaria e Pil diminuirà dal 6,7% del 2017 al 6,5% nel 2018, per poi precipitare al 6,4% nel 2019, lasciando intendere che l’eventuale ripresa del Pil non avrà ricadute positive sul finanziamento pubblico del Ssn. A giugno 2017: il decreto ‘Rideterminazione del livello del fabbisogno sanitario nazionale’ riduce di 423 milioni per il 2017 e di 604 per il 2018 il finanziamento a cui concorre lo Stato.

Ancora, ricorda Gimbe, a luglio 2017 la ‘Relazione sulla gestione Finanziaria delle Regioni, esercizio 2015’ della Corte dei Conti quantifica che nel periodo 2015-2018 l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica ha determinato una riduzione cumulativa del finanziamento del Ssn di 10,51 miliardi di euro rispetto ai livelli programmati. Tradotto in sintesi: da qui al 2020 la spesa sanitaria italiana scenderà sotto i livelli considerati essenziali per i paesi industrializzati. Un gap enorme tra i livelli di finanziamento programmati e quelli effettivamente erogati, recentemente messo nero su bianco anche dalla Corte dei Conti. Mentre l’inestricabile frammentazione in 21 sistemi regionali sta portandoci diritti al caos.

In questo contesto di contrazione della spesa potrebbe sembrare quasi una beffa la revisione “al rialzo” dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) annunciata a marzo di quest’anno dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Quasi un libro dei sogni, una lista dorata di prestazioni che non potranno mai essere garantite in realtà.

La domanda che si pongono gli operatori della sanità pubblica e privata accreditata, gli utenti è: il sistema “universalistico” in Italia è ancora concretamente sostenibile? Il parere è unanime. La riforma costituzionale del 2001 non funziona più sulla Sanità e le asimmetrie, i conflitti, le incertezze sul territorio sono insostenibili. Una governance unitaria non esiste. Figuriamoci a livello regionale alle prese con i piani di riorganizzazione di Aziende Sanitarie ed ospedali. La progressiva contrazione delle risorse ha fatto sì che ogni Regione ha riorganizzato come poteva il proprio sistema chiudendo presidi, togliendo servizi, per presentare bilanci in ordine. E il meccanismo non ha funzionato. Lo dimostra un indicatore fra tutti: la mobilità sanitaria fra le Regioni, che vale qualcosa come 4 miliardi di euro. L’Italia è tagliata in due. Quattro attrattori d’eccellenza: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, dove ci si va a curare. E al sud soprattutto, tanti luoghi da cui è meglio “emigrare”.

Devono dunque entrare nella priorità dell’agenda politica interventi legislativi, anche di rango costituzionale, regolatori e regolamentari capaci di restituire omogeneità ai livelli assistenziali oggi gravemente pregiudicati da una progressiva frammentazione regionale, come confermano i dati della mobilità passiva tra territori e da lunghe liste di attesa. Nel paniere dei Lea si dovranno garantire prestazioni e servizi di elevato valore sanitario, legittimate dal rigore della scienza e ad alto contenuto etico-sociale. Ma al tempo stesso si dovranno cancellare quelle di scarsa utilità o addirittura dannose e i cui oneri economici non possono gravare sulla finanza pubblica.

 

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