Commercio, il 62% degli italiani favorevole a limitare le aperture nei giorni di festa

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Non è vero che gli italiani vogliono lo shopping 24 ore su 24, sette giorni su sette e anche il Primo Maggio: il 62% – la maggioranza assoluta – si dice infatti favorevole a introdurre una limitazione delle aperture festive delle attività commerciali. E’ quanto emerge da un’indagine condotta da Confesercenti con SWG su un campione di 1300  consumatori e 600 imprenditori della distribuzione relativamente al tema della deregulation del commercio, introdotta dal Governo Monti nel 2012, che prevede la possibilità di rimanere aperti sempre, anche a Pasqua, Natale e Primo Maggio.

Un ritmo insostenibile – è il pensiero di Prospero Cassino, presidente Confesercenti Potenza – per i piccoli esercenti che, quest’anno il Primo Maggio, per non essere tagliati fuori dalla concorrenza della GDO, hanno rinunciato al riposo. Anzi, quest’anno le aperture dei negozi per il Primo Maggio sono state decisamente più numerose ed anche in centri che non aspettavano flussi turistici o di visitatori. Un atteggiamento che per competere con i grandi centri commerciali non produce risultati apprezzabili sul piano delle vendite vanificando ogni sacrificio di titolari che hanno diritto al riposo.

Ad incidere sul giudizio degli italiani è proprio la consapevolezza che la deregulation sta schiacciando i negozi. Il 71% degli intervistati, infatti, segnala che negli ultimi due anni, nel proprio quartiere o città, hanno chiuso negozi di cui erano clienti abituali, mentre il 66% ha visto crescere il numero di locali sfitti o che hanno cambiato tipologia di attività, passando dal commercio alla ristorazione o ai servizi.

La posizione dei consumatori sulla deregulation trova evidenti assonanze con quella espressa dai commercianti. Che, però, vivono con ancora maggiore preoccupazione gli effetti della liberalizzazione, che ha portato le attività commerciali, in media, ad essere aperte 30 giorni di più all’anno. Il 61%, infatti, ritiene che il regime di apertura continua abbia danneggiato la propria attività, contro appena un 12% che dichiara effetti positivi.

Per questo – riferisce Cassino – Confesercenti ha proposto di introdurre 12 chiusure festive e domenicali obbligatorie durante l’anno, con la possibilità da parte dei sindaci di raddoppiarle o annullarle a seconda delle esigenze del territorio. Una proposta che riscuote il favore quasi unanime dei commercianti: tra gli intervistati si è detto favorevole l’87%, contro un 4% di contrari e un 9% di incerti.  Un esito motivato dal desiderio degli imprenditori di limitare la distorsione della concorrenza a favore della GDO, ma che nasce anche dalla considerazione che la debolezza del mercato interno rende insostenibile l’eccesso di deregulation. Tanto che, quando interrogati sul futuro della propria attività, la maggioranza degli imprenditori – il 52% – vede il maggior fattore di rischio nella situazione economica del Paese, mentre GDO e centri commerciali sono indicati da un terzo degli intervistati e la concorrenza dell’online solo dal 15%.

“La nostra proposta – spiega il Presidente nazionale di Confesercenti Massimo Vivoli – prevede di passare dalla deregulation totale ad un minimo di regolamentazione, ragionevole e assolutamente compatibile con i principi e le prassi prevalenti in Europa in materia di libertà di concorrenza. Monti –afferma Vivoli – aveva promesso che con questa liberalizzazione sarebbe aumentato il Pil, sarebbe aumentata l’occupazione, si sarebbe stimolata una maggior concorrenza. Tutte e tre queste cose sono risultate non vere. Gli unici effetti certi rilevati con certezza sono stati la compressione dei diritti dei piccoli imprenditori e lo spostamento di quote di mercato – il 3%, pari a 7 miliardi di fatturato – dai negozi tradizionali alla grande distribuzione. È chiaro che noi non chiediamo di stare chiusi sempre, ma di restare aperti solo quando e dove necessario, come ad esempio nelle località turistiche, per predisporre un programma di aperture attento alle esigenze dei consumatori ma anche di chi lavora e di quel modello distributivo italiano che è, storicamente, fatto di piccole e medie imprese”.

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